Continuiamo a pubblicare, in forma anonima, alcune testimonianze raccolte tramite il “Questionario sui giornalisti non dipendenti nel Friuli Venezia Giulia", lanciato dal Coordinamento precari e freelance e dalla Commissione lavoro autonomo dell'Assostampa FVG.
Questa volta pubblichiamo l'amara riflessione-testimonianza di una collega, che ama questo lavoro ma vorrebbe...
(Inviate le vostre testimonianze a: precari.freelance@assostampafvg.it)
la riflessione e (amara) testimonianza di una collega
che ama questo lavoro ma vorrebbe anche
dignità, rispetto e non elemosine...
La vita da giornalista è quella che sogni, ma è anche quella che ti sei conquistato, portando i pezzi, facendoti apprezzare, sgomitando in una concorrenza spietata.
È quella per cui hai studiato, sette camicie su un concorso per diventare professionista.
E quando scrivi ti pare di volare, quanto è sublime questo che non definirei un mestiere, ma un gioco ardito con le parole, un raccontastorie pepate per colpire il redattore e farti uscire quel pezzo.
E poi la firma sul giornale, per anni un orgoglio, poi diviene routine e lascia spazio alle iniziali del nome e del cognome. E dietro quelle lettere puntate ci sta il tuo stile.
Fino a qua tutto perfetto: un mondo ovattato dove la pergamena dei benedettini ha lasciato spazio ai caratteri mobili di Gutenberg e poi alla vecchia macchina da scrivere, ai pc, ai tablet, ad un taccuino che diventa lo schermo dello smartphone.
Tutto è cambiato, ma quello che più pesa è il riconoscimento di una carriera, che passa attraverso l’approvazione del capo-redattore, ma anche del lettore che ringrazia per il lavoro di certosina limatura, poi guardi il compenso e ancora una volta pensi “chi te lo fa fare”.
Chiunque prende più di un giornalista freelance, anche la baby-sitter, il calzolaio, la donna delle pulizie.
In fondo tutto cambia perché nulla cambi. La pandemia ha insegnato che essere in redazione o a casa non cambia, che scrivere da un bar, o sopra uno scoglio non fa la differenza, perché la notizia la trovi in mille modi e scrivere lo si fa di getto, 15 minuti e 45 righe sono pronte.
Dietro quella velocità ci sta una vita passata sulla tastiera, professionalità infinita, forza di volontà estrema. La voglia di scrivere per il gusto di farlo e per dare spazio e, il più delle volte, aiuto alle storie di periferia, al riscatto che un articolo può portare.
Perché la stampa se non è il quarto potere, è uno tra i poteri che ancora contano.
Ma quelle dita su quella tastiera valgono 6, 8, 10 euro. Ed è una vergogna degli editori che lucrano sulla competenza, dello Stato che preferisce sistemare i riders e i navigator, piuttosto che i giornalisti.
Perciò quel lavoro che sai fare egregiamente non basta per sopravvivere: talvolta al mese sono 100 euro, 200, chi è fortunato arriva a mille. Quisquiglie.
Dopo aver macinato chilometri di strada per frugare notizie, dopo aver scritto fiumi di parole, dopo aver rinunciato ai sabati, alle domeniche alle feste, perché il precario non dice di no, perché ce n’è uno pronto a sostituirti, a farti le scarpe.
Signorsì sempre, mentre stai facendo altro, mentre ti chiamano a qualsiasi ora di qualsiasi giorno, mentre stai allattando il piccolo, portando a scuola il figlio, mentre sei a cena con gli amici, mentre stai facendo una lavatrice. Suona il telefono, rispondi, molli tutto e cominci a prendere appunti che serviranno per la stesura finale.
C’è chi si barcamena con gli uffici stampa; e anche lì, per farti riconoscere un diritto, l’Inpgi 1, rischi di perdere il lavoro. Anzi, personalmente, il processo l’ho vinto, ma il lavoro l’ho perso.
E allora ti devi reinventare perché le competenze ci sono, eccome: studi, master, specializzazioni, certificazioni di ogni tipo e poi quel concorso a Roma per professionista passato al primo tentativo, mentre altri colleghi in redazione, l’hanno tentato più e più volte.
Quello del giornalista è un lavoro maledetto, è come un amante: lo cerchi, ne hai bisogno, scrivere è parte di te. E loro lo sanno, sanno sfruttarti benissimo.
E quel “loro” sta per lo Stato che tutela i fannulloni, quelli che non lavorano, piuttosto che agevolare le professionalità, il lavoro onesto, giustamente retribuito.
Ah, 10 euro, che mancetta penosa. Eppure, sono lordi che credevi?
Poi non ti spieghi perché i colleghi di redazione intascano dai 3500 euro in su al mese. Fanno il tuo stesso lavoro, in più mettono i titoli, una cosa che potresti fare benissimo. La disparità, l’ingiustizia.
Ci vorrebbe una rivoluzione, ma non siamo mica francesi noi.
[Puoi mandarci la tua testimonianza o riflessione a: precari.freelance@assostampafvg.it
I testi selezionati verranno pubblicati in forma anonima]