28 settembre 2015

FARE INFORMAZIONE OGGI: CON CARBONETTO, BEKAR, TAVČAR, FOLISI

FORUM-DIBATTITO A "KEEP LEFT"
Doberdò del Lago, sabato 26 settembre 2015



Fare informazione oggi, in un mercato giornalistico e una professione profondamente mutati rispetto al passato. Questo il tema dell'incontro pubblico che si è svolto sabato 26 settembre al Centro visite della Riserva naturale di Doberdò del Lago, nell'ambito della due giorni di dibattiti "Keep Left", promossi da Sinistra Ecologia e Libertà del Friuli Venezia Giulia con la partecipazione di varie altre realtà del territorio. 

L'iniziativa, strutturata in tavoli di discussione tematici, puntava a sviluppare un confronto aperto, anche con il contributo di esterni, "per definire delle proposte programmatiche innovative per una sinistra di governo".
 

Il Forum sull'informazione è stato coordinato da Gianpaolo Carbonetto, già inviato e caporedattore del Messaggero Veneto, che ha curato la relazione d'apertura. Sono seguite le relazioni degli altri colleghi invitati Maurizio Bekar (freelance, su nuove tecnologie, nuovo mercato del lavoro e nuovi diritti), Vojmir Tavčar (già del Primorski Dnevnik, su informazione di confine e delle minoranze nazionali in Europa), e Fabio Folisi (direttore della rivista on line E-Paper, su informazione digitale e piccola editoria), tutti attivi nel tempo e in vari ruoli nel sindacato dei giornalisti.

Con il consenso dell'autore, pubblichiamo l'intervento di apertura del collega Gianpaolo Carbonetto.

GIANPAOLO CARBONETTO
FORUM INFORMAZIONE
"KEEP LEFT", Doberdò del Lago, sabato 26 settembre 2015



Gianpaolo Carbonetto
Mi scuso se comincerò con un’introduzione che affronterà problemi apparentemente poco concreti, ma la ritengo necessaria in quanto certe cose, che per noi del mestiere appaiono scontate, hanno bisogno di essere, almeno in parte, spiegate. Quando si parla di crisi dell’informazione, infatti, non parliamo soltanto di problemi economici e occupazionali legati alla parte aziendale dei mass media, ma ci riferiamo soprattutto all’inevitabile crisi professionale e, quindi, di democrazia che quella dell’informazione porta con sé.

A parlarne sono qui con me Maurizio Bekar, Vojmir Tavčar e Fabio Folisi che vi presenterò meglio prima di invitarli a intervenire sugli argomenti di cui sono esperti. Ma prima di passar loro la parola vorrei soffermarmi su quelle che una volta, per i cittadini, erano le fonti più tipiche dell’informazione e che oggi sono messe in crisi anche dalla nascita delle comunicazioni digitali, più o meno strutturate che siano, ma soprattutto da quello che ha messo in crisi l’intero nostro mondo: il cosiddetto mercato e il cambiamento delle aziende perché una parte consistente della crisi deriva proprio da quella che definirei la “sindrome dell’amministratore delegato”.


 

Ricordate la vecchia iconografia classica dell’industriale-padrone? Ebbene, pur con tutta la sua boria e la sua insensibilità sociale, oggi appare quasi come una figura da rimpiangere perché comunque aveva in sé il sacro valore della sua azienda che voleva mantenere sana e vitale, sia perché la sentiva come una creatura propria, sia in quanto desiderava lasciarla in eredità ai propri discendenti. Oggi non è più così. Le aziende sono affidate per la maggior parte a persone molto ben pagate alle quali è chiesto esclusivamente di presentare bilanci positivi e in continua crescita. E per riuscire a fare ciò – avendo come prospettiva di azione soltanto qualche anno di contratto – agiscono in maniera tale che l’unica cosa importante diventa la casella finale degli utili. Se poi per ottenere che questa casella contenga cifre sempre più cospicue, si finisce per realizzare risparmi prosciugando le ricchezze interne non direttamente monetizzabili, indebolendo le strutture redazionali e tecniche dell’azienda fino a portarla verso un inevitabile collasso, la cosa appare secondaria ed eventualmente riguarderà chi sarà chiamato alla difficile opera di risanamento. Nel campo dell’informazione, e non solo in quello, le aziende che sono morte così sono tantissime. E altre stanno morendo.
 

Nel campo dell’informazione questo ha portato a due conseguenze terribili: la concentrazione delle testate e delle emittenti e la delocalizzazione del lavoro; questa volta non in Bangladesh, ma – ed è più che sufficiente – fuori dalle redazioni. Partiamo proprio da quest’ultimo punto che poi sarà ripreso ampiamente dai miei colleghi. A me, al di là delle ovvie conseguenze sul livello occupazionale, sulla qualità del lavoro per gli interni e per la vergognosa esiguità dei compensi per gli esterni, interessa sottolineare alcuni altri aspetti che soltanto apparentemente possono sembrare secondari.
Per prima cosa il Contratto nazionale di lavoro creato da un sindacato unitario che da sempre si sente intimamente legato, secondo me ancor più dell’Ordine, a rispettare tutte le necessità della nostra professione, e non soltanto quelle economiche, definisce la realizzazione di un giornale o di una trasmissione giornalistica “opera d’ingegno collettivo”. E questa possibilità appare sempre più lontana perché la maggior parte dei servizi (scritti o parlati che siano) sono realizzati da giornalisti che hanno contatti con la redazione soltanto nel momento in cui ricevono l’ordine di seguire un qualche avvenimento. E così, mentre la digitalizzazione via internet consente una sempre maggiore interazione tra organi di informazione e cittadini, si riducono quasi a zero le interazioni tra la redazione e i collaboratori che sono sempre di più e coprono argomenti e settori sempre più delicati.
 

Visto dal punto di vista dei collaboratori, poi, a loro non manca soltanto un’adeguata remunerazione per il loro lavoro, ma soprattutto non hanno l’occasione di accumulare due ricchezze che noi vecchi capitalizzavamo in maniera praticamente automatica, senza quasi accorgercene. Il contatto con i colleghi più anziani e più esperti ci dava, infatti, la possibilità di imparare non soltanto la parte tecnica del mestiere, che non è poca cosa, ma anche di assimilare quella deontologia che nella nostra professione non è importante, ma fondamentale perché, nel dare una notizia, il giornalista non può mai dimenticare che il rapporto tra informatore e informato deve essere regolato da quelle norme di comportamento che vanno sotto il nome di deontologia, ma che, più semplicemente, rientrano del campo dell’etica generale.

A me è successo che un mio direttore – uno dei più bravi, tra l’altro, ma non certamente l’unico a ragionare così – facendo il verso a proprietari e azionisti, mi abbia detto, con aria di rimprovero neppure tanto implicita: «Il tuo è un buon giornalismo, ma un po’ troppo pedagogico; deve essere più distaccato e professionale». L’ho guardato e gli ho espresso il dubbio che non stesse usando la mia stessa lingua.

Pedagogico vuol dire che si occupa di educazione, ma professionale cosa significa? Qui le strade interpretative divergono perché per loro vuol dire saper vendere, saper far aumentare la diffusione, per la carta stampata, oppure lo, share per la televisione. L’importante per loro, insomma, è solo il profitto, l’assecondare le tendenze del mercato andando dietro le esigenze del pubblico. Se, poi, queste sprofondano – e stanno sprofondando – in una povertà intellettuale, morale e sociale assoluta, noi dovremmo sprofondare con loro. Possibile che non si rendano conto che, invece, è proprio il mercato, la frenesia del consumare, che indirizza i gusti del pubblico? E che se gli organi di informazione seguono pedissequamente le esigenze indotte dal mercato, non soltanto ne sono complici, ma addirittura servi sciocchi, perché finiscono per togliersi il terreno da sotto i piedi? Perché sempre meno la gente avrà bisogno di leggere, ascoltare, conoscere, riflettere, decidere coscientemente su qualcosa che vada oltre ai dubbi su quanti telefonini avere, o su qual è la cosa di tendenza da possedere assolutamente.

Chi sostiene che «pecunia non olet», che il denaro non ha odore, come disse Vespasiano a suo figlio Tito che gli rimproverava di aver messo una tassa sui gabinetti pubblici, ha sicuramente seri problemi di olfatto. Chi sostiene che fare il giornalista significa soltanto escogitare i sistemi migliori per innalzare diffusione, audience o share, vuol dire che ha quantomeno seri problemi di deontologia.
 

Professionalità giornalistica, infatti, non significa soltanto saper trovare e verificare le notizie e poi tradurle in un brano letterariamente valido e in un titolo accattivante inseriti in una pagina graficamente gradevole: potrebbe farlo chiunque, e con pochissimo addestramento. Perché un mestiere diventi professione deve poggiare, invece, sopra un solido substrato etico. Nel caso del giornalismo, per spiegarmi meglio, il verbo “informare” non può essere disgiunto dal verbo “formare”, mentre deve essere nettamente separato dal “disinformare”. E, per dare contorni ancora un po’ più definiti al tema, dico anche che l’obbligo di una moralità, di una deontologia, esiste non perché la professione giornalistica nasca per educare, ma perché, se questa eticità manca, ne consegue, in maniera praticamente automatica, che finisce per diseducare.

Già questo costituisce un serio problema per la salute della democrazia, ma la situazione è resa ancora più pericolosa dalla concentrazione delle testate che è conseguenza e aggravamento di quello che dicevo prima. Per restare alla nostra regione, noi stiamo vivendo in una specie di monopolio costituito dal dominio assoluto del gruppo Repubblica l’Espresso con le sue due testate locali: il Messaggero Veneto e il Piccolo. Ma sono ancora davvero due testate, o sono diventate due grosse redazioni di una testata unica con sede fuori regione? Hanno tantissime pagine in comune confezionate altrove e spesso mettono in comune anche le proprie potenzialità. A restarne stritolate non sono soltanto le altre testate, ma soprattutto le possibilità di un pluralismo dell’informazione che è un caposaldo democratico.

Qualcuno potrebbe pensare che la mia sia una stizzosa presa di posizione da parte di un vecchio giornalista che rimpiange i tempi passati perché coincidono con quelli della sua giovinezza. Ma non è così: molti anni fa, quando Melzi, già proprietario del Messaggero Veneto, stava trattando anche per acquistare il Piccolo, ero vicepresidente dell’Associazione e consigliere nazionale della Federstampa e ho lavorato a lungo, ma purtroppo invano per scongiurare questo disastro (che, sia detto tra parentesi, non ha nemmeno giovato economicamente ad almeno una delle due testate). La mia tesi era che, come esistevano delle quote di mercato non superabili fissate dall’antitrust a livello nazionale, così dovevano esistere anche a livello regionale. Ne ho parlato con l’Antitrust, con alcuni parlamentari, con la presidenza delle Commissione Stato–Regioni e con quella della nostra Regione, e ho ottenuto ampi consensi. Consensi a parole, ovviamente; a livello di fatti tutto si è interrotto definitivamente subito dopo i primi passi dimostrando ancora una volta che in questo Paese gli affari contano molto più dei principi e dei diritti.

Gianpaolo Carbonetto

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